venerdì 11 settembre 2015


Sono al binario 6, il treno è in sosta sul mio binario, è quasi tutto vuoto, guardo dentro ed attraverso un finestrino, i sedili sono vuoti ma io ci vedo un bambino che si affaccia ripetutamente al finestrino, osserva tutto quello che accade, un occhio al semaforo ancora rosso, un occhio ai treni in arrivo e partenza, non riesce proprio a star fermo, è smanioso di partire, andare verso l’ignoto viaggio dove qualsiasi meta è ben accetta, basta andare almeno oltre il limite raggiunto la scorsa volta; l’altoparlante annuncia la partenza, il bambino si affaccia ora dalla porta del treno osservando i movimenti del capotreno, di chi da l’effettiva partenza, è nei suoi panni ed imita quasi la sua gestualità; ed ecco il verde, con un balzo risalta a bordo, aspetta la chiusura delle porte e di corsa salta aggrappandosi al finestrino affacciandosi nuovamente ad esso. Al fischio del capotreno è tutto un sussulto, il treno lentamente si muove, il vento sulla faccia del ragazzino non è un problema, ci è anche abituato a dir il vero e poi vedere le varie scene intercambiarsi di fronte ad esso lo entusiasma. Il treno è partito, anche quel bambino è scomparso inghiottito dal viaggio, svanito nel suo mondo fatto di rotaie, binari, scambi e coincidenze, mi piace immaginare ora su quale treno in quale entusiasmante viaggio ora si trova.
L’intercity oggi mi sa che non lo vedrò, è in ritardo di ben 25 minuti ed io per le 20 e 30 vorrei stare a casa.


Stazione di Caserta, 10 settembre 2015

martedì 8 settembre 2015

Pensieri in stazione di Caserta

Problemi di oggi? … Arrivismo estremizzato, tutti vogliono il pollo, nessuno si accontenta, nessuno sa perdere, imbottigliamento su stessi obiettivi (indotti dalla società, dai mass media), non si sa soffrire o rimanere soli (continui diversivi, fughe). Soluzioni? Viaggiare, spostarsi senza soldi o adattandosi con quel che si ha, creare nuovi gruppi, nuove esperienze, importante rimanere se stessi, i commenti degli altri non importano, ma la gente si accorge e premia chi incarna la propria natura, e chi ha il coraggio di spingerla fuori, essere onesti prima di tutto con se stessi, accettare quel che si è poiché quando si è se stessi c’è energia che scorre libera e si è così sempre contenti, ora scrivo qui in stazione per essere me stesso e far uscire quel che ho dentro, dedicarsi del tempo utile solo per se stessi, volersi bene, il mondo parteggia per me ma continuerà a vivere anche senza di me; io sono seduto su questa panchina ed avverto l’energia che è intorno a me, anche solo rimanendo fermo sono felice, input ed output con tutto ciò che avviene, la distanza non conta, chi ti osserva non conta. Siamo energia, libera e fluttuante, che arriva e contagia chiunque, quello che non è accaduto non conta e si fonde comunque con quello che è accaduto incastrando dentro anche tutti i desideri, i sogni, le illusioni, le aspirazioni, basta che siano vere e sentite, anche innamorate.

Mi piacciono le persone, seguire i loro spostamenti, accedere per un attimo al loro indaffaramento, mi basta un attimo, dopo sono già oltre.

Conquistare la serenità, come fare? Iniziamo ad ascoltare i suoni, maglio ancora se ad occhi chiusi, sprigioniamo così sensazioni nuove, inaspettate, che iniziano a sfollare poco per volta l’imbottigliamento della vista. Il mondo è per chi sa provare nuove strade, ha il coraggio per predisposizione o per obbligo di salute a percorrerle e darsi da fare, raccoglierà solo frutti quando sarà il tempo giusto.

Un luogo pubblico, un luogo dove tutti possono stare, dove avviene la vita, non di passaggio ma di sosta senza obbligo di limite di tempo, l’unico limite è il nostro disagio, da non superare, da non forzare. L’aria aperta fa bene a tutti, soprattutto nelle belle giornate di sole, ci vorrebbero panchine ovunque e se non ci fossero ne facciamo a meno, ci sediamo in terra, sui bordi dei marciapiedi, basta che i luoghi non devono avere modalità d’uso, ovunque ci si può sedere ed ascoltare i luoghi, la gente, gli alberi, ciò che ci circonda.

Un tramonto eccezionale per una giornata eccezionale con momenti a me dedicati, e non fa nulla che mi sento la pancia nuovamente gonfia, è solo energia che si smuove, che sa dove deve andare, così come i pensieri, le azioni, i desideri, i meriti.

Fare cose che nessuno si aspetta, che nemmeno tu ti aspetti e cambiare idea o deciderla all’ultimo secondo rimanendo con la testa libera, sgombra.

Due ragazzini si baciano vicino a me, la loro enfasi dovrebbe essere da esempio per il mondo, proiettata stasera su tutti i TG al posto dei morti ammazzati, quelli ne creano di nuovi, inquinando le coscienze.

La Piedimonte è arrivata, che bel trenino è il commento della ragazzina, in effetti le cose diverse fanno sempre un mondo di tenerezza, intanto il tempo sta cambiando, il fresco dell’autunno è già in arrivo, la prossima volta verrò con il giubbino.

Aspetto solo l’Intercity che arrivi, se arriverà, poi vado via.

Recuperando i luoghi sostando in essi senza far nulla, senza scappare e fuggire, è l’unico modo per dargli un valore, uno spirito, un’importanza oltre a far reciproca compagnia, la stazione per ora è il mio posto.

Un treno arriva sul mio binario, i fidanzatini si salutano perché si dividono, belle scene, sul treno noto ben tre bici a bordo, i tempi di mobilità sostenibile stanno cambiando?

Intercity in arrivo, poca gente oggi in attesa del treno, forse è il sottopassaggio rotto dello spicchio di banchina che vedo.

Intercity arrivato, la capitale ti aspetta, il mio viaggio è più corto, arriverò a casa prima io, aspetto la partenza e vado via nella dolce calma preserale.


stazione di Caserta, 8 settembre 2015

venerdì 4 settembre 2015

Merangeli

nei vicoli silenziosi,un leggero venticello,disperde il caldo afoso.
Seduto sulla panchina l'uomo riposa,
mentre la moglie ricama all'ombra di una rosa.
Una casa fatiscente custodisce la storia della gente,
chi il suo portone ha varcato
comprensione ha trovato.
Il paese sembra addormentato
molta gente è migrata
ma chi è tornato i vicoli ha addobbato

Merangeli, giugno 2015




foto di Alessandro Santulli, testo di Serafina Ragozzino

mercoledì 2 settembre 2015

Viaggio nell’Irpinia d’Oriente agosto 2015

Per queste terre lontane anche dal centro dell’Irpinia, mi ritrovai nel mezzo di agosto alla ricerca di una svolta di coscienza; di un passo verso l’oltre; verso l’incerto; verso l’improcrastinabile. Per cercare l’indefinito; cercare l’evoluzione; cercare nell’infinito. Cercare partendo da ciò che mi piace fare, cioè osservare. Osservare il paesaggio; assorbire ciò che mi circonda; puntualizzare; sostare e riflettere  in luoghi trovati per caso o ben segnati sulla cartina, poco importa.
Eccomi perciò in questo bel boschetto di cipressi, di quelli orizzontali ed alti che sanno tanto di Toscana o che ti avvisano dell’arrivo in un cimitero. Qui no, sono stati piantati per rimboschimento e costituiscono un’area di sosta per viandanti persi, per pellegrini di una vicina chiesetta o per incontri notturni dai reperti lasciati in loco. Un intenso costante vento, un pungente odore di resina, una intermittente cicala con il suo fastidioso verso ma che sa tanto di estate, mi fanno da contorno in questo primo assaggio d’Irpinia. Sono nei pressi di San Nicola Baronia, ma il paese più alto della Campania già mi attende.


Mi incammino nell’abitato di Trevico. Vi entro in punta di piedi, rispettando il profondo silenzio circostante. In effetti non sembrano le tre del pomeriggio ma la mezzanotte. E’ un silenzio talmente netto, che non ti aspetti, che ti spiazza, che ti mette soggezione. Esso è accompagnato dal sibilo del vento che crea malinconiche melodie in collaborazione con le tendine metalliche o di plastica delle porte. Passeggio ora velocemente per la via principale del paese. A destra la casa della paesologia, poi un balconcino con un fascio di peperoncini ad essiccare. Sulla sinistra la chiesa; di fronte la piazza, vuota, libera. Il silenzio mi assale, è oltremodo inquietante. Sembra aver bloccato tutto, sembra stampato nelle mura delle case stesse. Oltrepasso le ultime abitazioni e mi fiondo lungo una stradina in una verde cerreta. Qui trovo pace ed il passo anche si fa più calmo. Apprezzo il cimitero posto in posizione panoramica come il campo sportivo. Ripercorro a ritroso il paese, forse la vista di qualche abitante ora mi trasmette tranquillità. Prima di tornare all’auto rilancio un pallone a dei ragazzini, saluto un paio di persone. Prendo l’auto, vado a Bisaccia.
Rimango incantato da Bisaccia, dalle sue storie, dallo sdoppiamento in due abitati. Il paese madre ed il paese figliolo, forse illegittimo. Da spartiacque o da pretesto i vari movimenti tellurici e franosi. Mi dirigo in primis al paese antico. Gli abitanti mi accolgono con estrema fratellanza, sono tutti di una certa età. Risalgo per un vicolo a caso e subito mi accorgo di profonde ferite su case, muri; ferite lasciate sanguinare, mai risanate. Porte con bei portali in pietra sono murate con mattoni marroncini. Dopo la rapida visita al cimitero incontro Michele, ex preside, vicino lui la madre intenta a scucire una tovaglia bianca ricamata. Michele, volto affranto e tirato, mi spiega che il paese è stato distrutto ma non dai terremoti o dalle frane in corso d’opera, ma da chi ha deciso di delocalizzarlo, costringendo a spezzare il legame con la casa madre, creando una vera perdita d’identità. Una fine già scritta dalle leggi del mercato. Mi accompagna lungo un vicolo completamente disabitato mostrandomi le caratteristiche scalette esterne di salita ai piani rialzati delle case. Mi rievoca per ogni abitazione i suoi ex abitanti, quasi a rendergli onore. Lo lascio confermandomi una mia perplessità, si stava meglio prima senza progresso, c’era meno cattiveria e più lavoro per tutti. In queste terre i giovani non hanno futuro, ne hanno solo le pensioni.


Mi godo il tramonto sulla strada per Aquilonia, le pale eoliche del pianoro del Formicoso si stagliano come giganti. Mi rammarico per non aver visitato il castello di Bisaccia, tornerò.
Come il tramonto anche l’alba si presenta con colori rosacei e tenui, il risveglio sul lago di San Pietro è ben accetto.
Aquilonia, altro paese che porta i segni dei tremori passati. Qui la ricostruzione del nuovo paese è avvenuta subito dopo il terremoto del 30. Del paese vecchio solo ruderi e rovine. Svolgendo qualche passo di perlustrazione del territorio rimango estasiato dalla fontana-abbeveratoio-lavatoio comunale. E’ un opera d’arte. Tutta in pietra antica, con uno stemma gentilizio che riporta come data intorno alla fine del 1700, con vari ornamenti e soprattutto immersa in piacevole ambiente agreste. Lì vicino incontro Nicola, accompagnato da un cinque, sei mucche, una decina di caprette, due pecore. E’ nato nel 30, sarà uno dei più anziani del paese. Mi accompagna a vedere la stalla, ricavata in una casa del vecchio paese. Gli animali alla mia vista qui si rifugiano, nel luogo per loro sicuro. Essi, unici abitanti, unici usufruitori  di questo antico insediamento. Devo dire che capre e ruderi ben si coniugano. In un clima di desolazione gli animali abbelliscono tutto. Saluto Nicola mentre mi indica l’abitato di Monteverde, mia prossima meta. Orgoglioso mi ricorda quando da giovane vi faceva incursione per conquiste amorose salendo dai pascoli che occupavano lo spazio vuoto del lago di San Pietro. Le conquiste erano andate in porto riuscendo qui a trovare una sua fidanzata; chissà se è anche diventata la sua attuale sposa o i sospiri erano dovuti a possibili ripensamenti.
Monteverde, il paese cullato tra tre colli, due verdi, uno ricoperto di case e pietra. All’ingresso un falco voleggiante mi da il benvenuto. Giungo nel mezzo della festa patronale, il paese è vestito a festa. Mentre la Madonna passeggia per il paese visito il castello. Ben fatta al suo interno una mostra di immagini, acquerelli del paese rappresentato da emigranti vari. Dalle varie finestre visioni improvvise e dominanti sulle Puglie, sul Vulture, sull’Irpinia interna: siamo al crocevia di tre confini regionali e territoriali, la posizione è invidiabile. Il ragazzo custode mi conferma che qui si è puntato sul turismo ed i primi risultati sono incoraggianti. Per strada non posso non imbattermi nella sacra funzione, mi fermo come tutti in senso di devozione e rispetto. Ciò è il preludio per l’incontro con i fratelli Brescia, fotografia per loro e calorosa stretta di mano. Visito i due colli verdi, oasi di pace e riposo all’ombra di bei boschetti. Su uno vi trovo dei massi stranissimi, mi sembrano i dorsi di pachidermi addormentati.
La giornata si presenta intensa ed il proseguo non è da meno. Mi trovo a percorrere la lungo Ofanto, il fiume che segna il confine tra Irpinia e terre Lucane. Lo si considera un fiume sacro, la sosta lungo le sue acque è obbligata. Trovo un buon approdo per passeggiare lungo la sponda, rigogliosa, selvaggia. L’acqua mi attira, il battesimo nell’Ofanto va rispettato  ed attuato in una giornata soleggiata e calda.


L’Ofanto mi conduce, lungo la ferrovia dismessa con treni tutti da immaginare, sul blu-verdastro lago di Conza, ai piedi della balena sul cui dorso è appollaiata Cairano. E’ Angelino, barista per passione ed impegno civico in Cairano Centro, a suggerirmi questo strano appellativo di una conformazione rocciosa impossibile da non notare. Angelino, che ringrazio per le tante informazioni e la piacevole chiacchierata di fine giornata, lo trovo in compagnia di stravaganti locali intento a rimpinguare di birrozze. Tra le tante cose dette e non dette la storia di un benefattore del paese, noto produttore cinematografico avente fortuna all’estero, mi pare a Bruxelles, ma originario di Cairano. Quando si dice avere amore e ricambiare l’affetto natio. Peccato che il paese è costituito oramai da soli 300 persone, il resto tutti in Belgio o chissà dove. Infine Angelino ci tiene a ricordare che aveva un cane, una cane lupo, con cui in piazza ballava e di cui andava molto fiero. Immagino la scena, immagino una versione tutta Irpina di balla con i lupi. Al tramonto salgo alla rocca per gli antichi vicoli pieni zeppi di portali, su ciò il paese sembra un catalogo interattivo. Dal capo della balena il sole è ormai dietro le colline. Sotto di me appare nitida la lingua del lago di Conza, mentre le varie vallate si sovrappongono mescolandosi ed accorpandosi. Stradine sinuose si lasciano seguire con lo sguardo fino a che scompaiono dietro un pendio. In fondo i Picentini. Le pale eoliche del Formicoso. La luna. Il celeste sempre più blu. E poi solo le stelle.
Un nuovo giorno volta la sua pagina, le colline di Cairano albeggiano di rosso fuoco. Oggi non ho molta voglia di parlare con la gente, l’ideale è parlare con la storia. L’abitato antico di Conza della Campania è il luogo ideale. Il paese è fermo, le case si tengono compagnia con le altre case, dal lontano 80 qui regna il silenzio, il vuoto. Percorro una via, una volta penso importante. C’è una bella fontana, con due volti scolpiti, uno sorridente, uno triste. Antichi presagi? Salgo al primo piano di un fabbricato in buon stato, trovo una stanza piena di libri e fogli sparsi sul pavimento. Uno di questi attrae il mio sguardo, un orario ferroviario datato 1976. Lo sfoglio incuriosito dagli orari del tempo, trovo quelli della ferrovia che un tempo passava anche qui. In rosso con un pennarello sono segnati la stazione di Conza, un treno per Rocchetta, un altro per Foggia, ed ancora un espresso notturno per Bologna, Milano. Chissà se era un viaggio turistico o un viaggio della speranza senza ritorno quello programmato, sicuro il ritorno in quella casa non c’è più stato.


Passeggio sulle rive del lago di Conza, intorno a me pescatori. Mi siedo e mi concedo al paesaggio. Prendo nota che tutto ciò che vedo è stato profondamente modificato, dalle epoche, dalle convinzioni più o meno indotte dall’utilità provvisoria. Vedo un lago dove un tempo c’erano solo campi coltivati. Vedo una ferrovia ricostruita a monte con piloni immensi dove il treno oggi lo puoi solo sognare. Vedo un paese sulla collina semidistrutto ed abbandonato. Vedo pale eoliche che spuntano la notte come germogli, ti svegli, ne vedi una in più, ma quasi non ci fai più caso. Vedo oltre, vedo quello che sarà, sperando che l’erba ci sia ancora.
Mi dirigo ad Andretta, faccio un’ultima sosta paese. Le interazioni sono poche, rapide e flebili, ma solo per mia colpa. Visito la mostra di reperti antichi nel comune, allegate ci sono foto che parlano di protagonisti passati. Una signora in strada, gentilissima, si interessa al mio pellegrinare, il suo sorriso lo imprimo in memoria. A pochi metri un vecchietto che mi parla con gli occhi, sembra volermi benedire, augurarmi buona fortuna. Anche lui è qui dentro di me. Altre piccole interazioni con i cani di paese. C’è ne sono tanti, di ogni forma, di ogni età, di ogni sorriso.
Nel silenzio dell’ora di pranzo, così come al mio arrivo, mi rimetto in marcia per tornare verso casa con il pensiero di presto ritorno nei paesi dell’Irpinia d’Oriente. Scrigni di mille sensazioni, custodi di smisurate entità.

Luoghi attraversati o visitati in ordine temporale: San Nicola BaroniaTrevicoBisacciaAquilonia (AV)Lago di San PietroMonteverde (Av)CairanoConza della Campania,Lago Di ConzaAndretta (AV)

Viaggio nella Daunia agosto 2015

Dolci colline rigate dall’opera dell’uomo e del tempo, nel mese di agosto offrono scorci zebrati con chiazze di giallo vivo, nei quali i paesini sulle alture vi si perdono e si mescolano, creando omogeneità del paesaggio. Gli stessi custodiscono persone senza grandi novità, abituate raramente a scorgere viandanti a loro interessati; vivono nei loro luoghi cari senza allontanarsene, senza oramai avere altra destinazione.
Sulle creste dei pendii moti ventosi soffiano animando ogni ramoscello, spargono per le lunghe e larghe vallate notizie e sospiri giunti da luoghi lontani o antichi. Senso privilegiato è la vista, che può spaziare senza fine rimanendo affascinata degli isolati alberi posti sui dolci pendii, dalle geometriche sinusoidali delle tante gobbe dei terreni, dalle larghe V create dai vari incontri prospettici delle linee di sommità.
Queste le mie prime impressioni di incontro e viaggio tra i monti della Daunia. Ho già attraversato i paesini di Celenza Valfortore e Carlantino, sostato presso la diga del lago di Occhito e seguito la valle del Fortore nel suo tratto di discesa verso l’Adriatico, lì dove la campagna a prima mattina si illumina a festa, sfoggiando il suo vestito migliore.


Viaggio verso Casalnuovo Monterotaro, di ritorno dalla visita all’omonima torre. Davanti a me e sotto di me un incrocio di colori appaiono tra le basse nuvole temporalesche, colorazioni ben delineate dai vari confini degli appezzamenti agricoli. Sembrano quasi essere stati disegnati con una matita da una mano precisa ed artistica. Alle mie spalle una masseria in stato confusionale, come tante incrociate prima, con tanta roba posata intorno ad essa alla rinfusa, dettaglio di una vita dedita alla provvisorietà, alla fatica di tutti i giorni. E nell’aria portato dal vento e dalle recenti piogge, l’odore pungente ed intenso delle cipolle tritate, fascino di una terra tutta nuova per me.
Castelnuovo della Daunia, arrivo con il mal tempo. Piove. Aspetto in auto che spiova. Rivedo le foto. Penso al lago di Occhito, dove ieri notte ho pernottato, a quella grande quantità d’acqua che pesa sulle teste degli abitanti del fondovalle. Chissà se li condiziona o gli influenza, sicuro li affascina. Peccato per i forti limiti di avvicinamento alle sponde ben segnalati da appositi cartelli. Altro spazio comune privato? Altro passaggio interdetto, solo da vedere da lontano? Credo che qui tutti in fin dei conti chiudono un occhio perché la bellezza non può essere chiusa in un cassetto.
Da Castelnuovo della Daunia il Tavoliere delle Puglie sotto di me. Continuo ad osservare linee, spigoli, fazzoletti di terreno, strisce di giallo, nero, verde scuro. Una miriade di geometrie tutte da formare, tutte da scomporre.
Ed improvvisamente apparvero le pale, quelle eoliche. Sulla strada per Pietramontecorvino, anche il libero vento perde la sua volatilità per diventare funzione in un palcoscenico dove si contano più alberi di cemento e plastica che sacre opere della natura. Avanzo tra questi spilungoni a tre teste rotanti cercando nuove inquadratura per inglobare anche loro nel paesaggio.
Visita di Pietramontecorvino. Centro storico interessante come anche il castello. Forse anche troppo ristrutturato e pavimentato a nuovo. Le cose antiche spesso sanno maggiormente quando sono lasciate all’anno della loro costruzione, ma questa è solo una mia considerazione. Almeno oggi è pienamente vivibile ed abitabile, ed infatti così è. Dal castello vista su una torre che seppure lontana sembra gigantesca. Si erge su una collinetta fuori dal paese dove le colline quasi terminano. Sembra la casa di qualche stregone. Mi dicono che una volta l’anno ci vanno in processione dal paese. Salto in auto alla sua conquista.


Fuga dalla torre. A circa 200 metri al suo arrivo nuvole incombenti nere e tuonanti mi invitano a gran voce a mettermi quanto prima al riparo, ripercorrendo a ritroso il sentiero fino giù all’auto. Qui le nuvole viaggiano veloci senza attendere orari predestinati. Avvolgono tutto in breve tempo. Celano alla vista gli orizzonti, aggiungono mistero. Addolciscono per un giorno la vita del contadino, abituato all’intenso irraggiamento solare. A giochi fatti (sotto un intenso diluvio) mi rifugio in un autogrill per sosta panino. Bello stare al sicuro mentre fuori imperversa la bufera.
Monte Cornacchia è la prossima meta. Ci arrivo lungo la strada da Biccari o quel che ne rimane. In effetti il cartello era chiaro: strada chiusa. A peggiorare le cose ancora la pioggia battente. L’auto arranca ma sale. Prima sosta al lago di Pescara, seconda al Belvedere appena oltre. Qui finiscono le parole o da dirne ce ne sarebbero veramente tante. Mi trovo sopra le nuvole, sembra di essere in cielo. Scatto delle foto che chi le vedrà penserà di averle fatte dall’aereo. Ora c’è assoluta pace. Nessun rumore. Le luci dei vari paesi che si dispiegano fin verso l’Adriatico danno cenno della loro presenza. Noi ci siamo. Viviamo e perciò sorridiamo tramite una flebile luce. In modo semplice, accorto e quasi con permesso. Piccoli puntini raggruppati a farsi compagnia, a tenersi stretti. A portare finalmente il sereno per essere scorti ed augurare la buonanotte.
Ennesima fuga dalla montagna. La nebbia del monte Cornacchia mi impedisce l’attesa salita all’alba in vetta. Mi rifugio in paese dopo aver però apprezzato l’incanto del bosco. Roseto Valfortore mi attende. Sosta bar per ambientarmi, per entrare in simbiosi con il contesto locale, per respirare a ritmo paesano. Zona centrale, passaggi mattutini, sotto gli occhi degli arzilli saggi seduti a fil di strada. Odore di mercato settimanale. Qualche emigrante in ritorno estivo al paese caro, è la macchina fotografica a tradirli. Eleganti donzelle in transito qui spiccano per i loro vestiti appariscenti ancor più che in città forse per lo stretto contrasto con lo scenario antico del luogo. Dialetti e voci di accenti pugliesi passano velocemente senza fermarsi. Il mercante borbotta sul pesce scarso. Intanto il cappuccini è finito, decido di fare quattro passi per il paese.


Escursione veloce ma intensa al monte Pagliarone. Mi trovo circondato da pale eoliche che scandiscono un ritmo costante, inesorabile. Mi sanno tanto di bersaglieri. Dritti, impettiti, a guardia e sorveglianza delle vallate sottostanti. Miriadi di mosche mi inseguono interessate a questo strano essere. Un vento fresco mi accoglie al raggiungimento della cresta. Vento che non riesco a capire se creato stesso dalle pale eoliche oppure energia naturale assestante. Fatto sta che l’orizzonte qui è unico e la vista e la coscienza trova di che spaziare. Mi siedo e rifletto.
In cammino nella cerreta del bosco di Montauro immaginando bivaccamenti fugaci da parte degli osannati ed eterni briganti o paladini locali. Vi ritrovo anch’io riparo dalla calura apprezzando con gran sollievo questo piccolo polmone verde lasciato germogliare e rifiorire.
San Bartolomeo in Galdo, sulla via del ritorno, si erge compatta sul filo di un rasoio. Unica emozione nella piazza centrale. Rimango affascinato da una vecchietta ricurva dal peso degli anni spesi tra lavori rurali, agresti. Porta con se delle buste piene forse di giornaliero raccolto. Ha delle scarpe grosse e tozze, procede con fatica. La seguo con lo sguardo aspettando il momento giusto per scattarle una foto senza spaventarla, senza farmi notare. Ed il momento è giusto quando si pone tra due lecci che contornano la piazza. La vedo quindi salutare dei coetanei seduti in panca. Subito dopo vado via, un po’ esausto, un po’ stanco. Parto, torno verso casa.

Luoghi attraversati o visitati in ordine temporale: Lago di OcchitoCelenza ValfortoreCarlantinoCasalnuovo MonterotaroCastelnuovo della DauniaPietramontecorvino,BiccariLago PescaraMonte Cornacchia 1151 m.Roseto ValfortoreSan Bartolomeo in Galdo

Permanenza ad Aliano agosto 2015

Terre di Lucania, terre di contadini, appartenenti solo a loro, di diritto, legittimate dai sacrifici, dalle fatiche, dalla testardaggine, dalla costanza. Sì, perché le terre della Lucania interna, quelle che da Tursi ti accompagnano ad Aliano e Sant’Arcangelo, da Senise agli impervi abitati di Craco e Pisticci, sono terre dure da masticare, estremamente aride e provvisorie, argillose, gommose, franose, mai in piano. Sono le cosiddette terre povere, odiate dai stessi locali, mal viste da quell’Italia del progresso, della produttività a tutti i costi. Ma queste stesse terre sono anche quelle ricche di spirito, dove ogni giorno avviene un piccolo miracolo, quello della vita, dell’assaporare senza fronzoli l’essere vitale riportando come una festa, come un ballo di gala in cui tutti i giorni era il giorno del riscatto, era il girono del rispetto, era il giorno dell’accettare, della vicinanza, dell’effimero, in poche parole era il giorno! Estrema vicinanza al terreno ma anche allo spirituale, il vitale si fondeva spesso con il mortale dando a tutto un senso di sacro, di profondo. Ed i contadini di tutto ciò ne erano parte integrante, anche se non se ne rendevano conto e della vita vedevano solo le ostilità, le disgrazie, le superbie. Erano fortunati, erano più vicini a Dio di quanto lo siamo noi oggi. Ecco perché le terre, la natura, i luoghi loro circostanti erano parte di loro, se non dentro di loro, era un continuo, un’armonia dettata dal senso di appartenenza per contatto ravvicinato e non pretenzioso.


Ad Aliano di contadini ne ho incontrati molti, sicuramente la maggior parte degli abitanti del piccolo paesino Lucano, ma quasi tutti purtroppo però oggi in pensione. Anche qui quel mondo eroico e terreno animato da vanghe e zappe è improvvisamente terminato e vaste aree del circondario sono in attesa di nuove destinazioni d’uso, diciamo essere o sembrare in aspettativa. Il paesaggio però intanto è fantastico, solenne, relegato finalmente all’improduttività, salvato da cemento ed ambizioni di sviluppo, smanie di grandezza del nostro tempo, viene visto dai più con indifferenza, snobbato, visto con fastidio. Terre profondamente scavate, puntellate da infiniti pinnacoli di tutte le misure, graffiate ai bordi da artigli immaginari, in perenne instabilità ed imminente movimento o crollo, piene di colori caldi o grigiastri, piene di pieghe senza ordine e senza disciplina, nude senza l’abito verde, ricche di spaccature, crepe, tagli, aspre e malinconiche, scenografie perfette per ambientazioni da far-east, luoghi da evitare nelle ore calde ma ance all’arrivo di forti temporali; terre arse, rugose, da profondo Sud, paesaggi lunari, paesaggi quasi inospitali, che richiedono profondo silenzio e religioso avvicinamento; scenari pietrificati di ex fondali marini dove il mare, custode un tempo di queste terre, lo senti ancora, chiudi gli occhi, e sei un pesce, fluttui tra le correnti in un mare di un blu cristallino e fondali colorati di mille specie di coralli e piante marine, apri gli occhi, e ti ritrovi solo, fuggiasco, isolato, ma almeno con quel mare dentro di te, a dissetarti, ad accarezzarti. Ecco, perciò, queste terre sono delle vere e proprie opere d’arte, di quel genere naturale che la rende opera irripetibile ed irrealizzabile; osservandole pensi di vedere un enorme quadro dalle prospettive mutevoli e dal valore non quantificabile dove l’accesso al museo è aperto 24 ore su 24 ed offre anche di un’ora tramonto ed un’ora alba, tempo permettendo.



In questo splendido quadro vi è contenuto il piccolo borgo di Aliano, non altro che una continuità del paesaggio tutto da ritrovare nelle conformazioni delle case, nei volti degli abitanti e soprattutto nei loro stati d’animo. E così che nella graziosa contadina Maria ammiri la tenerezza dei suoi occhi ricalcando la quiete di questi luoghi; in Francesco detto Ciccillo, la tempra e la determinazione, trovandolo ad 85 anni ancora in campagna nonostante i problemi ad entrambe le ginocchia; nel barista la pacatezza e la mitezza; nel vecchietto bevitore la rugosità del suo viso rassomigliante ad una carta geografica del territorio, intendetemi, per me un vanto tutto da conquistare e da raggiungere; oppure infine nella diffidenza dello scopatore delle vie mattutine, un tipo tanto strano quanto eccentrico, dall’età indecifrabile, uno tanto accomunabile al becchino del paese descritto da Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli. Ecco, perché impossibile è non confrontare questa piccola comunità odierna a quella tanto ben descritta da Levi, che qui trovò una seconda casa se non la prima. I personaggi sono sempre quelli, certo, a volte riadattati nei ruoli a questa società moderna a cui sembrano quasi prestati in mancanza di personale in attesa di tornare al loro posto primordiale nell’eternità del libro o della storia. Perciò camminando per Aliano si ha la netta sensazione di camminare in un libro aperto dove il successo si mischia con il succederà grazie ad una linea guida ormai indelebile. Ed allora è forse proprio lo stesso scritto, marcato nelle vie e nei muri, stampato nella quotidianità mai con grandi novità, a reggere il grande gioco della vita, o meglio il grande spettacolo che ogni giorno va in scena; il libro è il copione, gli attori sono in carne ed ossa e chi ci passa anche solo per un giorno e lascia qualcosa di importante in loco può chiedere la ristampa con effettiva modifica della storia. Oggi forse è toccato a me, domani certamente capiterà a te.

Aliano, durante il festival La luna ed i calanchi, agosto 2015